Nel numero de La lettura dell 11/11/2018 Carlo Bordoni intervista il filosofo francese Bernard Stiegler sulla sua ultima opera letteraria.
Bernard Stiegler, filosofo francese che tra tra il 1978 e il 1983 fu detenuto per rapina a mano armata, ripensa l’economia in senso etico e suggerisce nuovi limiti:
«Bisogna lottare contro il disordine, l’entropia prodotta dalla crescita industriale, o si estinguerà la vita sulla Terra» «Bisogna trovare una farmacologia positiva, come suggeriva Nietzsche: l’uomo viene considerato malato a causa della tecnica, ma tale infermità si può curare, può essere trasformata in un rimedio attraverso la conoscenza. È quello che manca in Derrida, mentre Deleuze lo aveva compreso»
Bernard Stiegler, filosofo francese e fondatore del gruppo Ars Industrialis, dirige l’Istituto di ricerca e d’innovazione (Iri) all’interno del centro Georges Pompidou. Nasce nel 1952 e da giovane è incerto sulla via da prendere, interrompe gli studi e cambia spesso mestiere. Tra il 1976 e il 1978, a causa di difficoltà finanziarie, compie quattro rapine in banca, l’ultima delle quali si conclude con la sua cattura in flagrante da parte di una pattuglia della polizia. Condannato a otto anni di reclusione, ne sconta cinque: in cella comincia a studiare filosofia ed entra in contatto con Jacques Derrida, del quale diviene allievo. Al ritorno in libertà, trova un posto come direttore di ricerca al Collegio internazionale di filosofia e si avvia a una brilante carriera intellettuale.
Bernard Stiegler
«La cultura greca arcaica riconosce che la tecnica è il destino dei mortali indicando il sapere come rimedio alla sua tossicità»
Professore, è uscito da poco il suo libro «Qu’appelle-t-on panser?» (Les Liens qui Libèrent), un titolo dal sapore heideggeriano: significa infatti «Che cosa significa curare?», ma dato che in francese «panser» (curare) si pronuncia come «penser» (pensare), chiama in causa anche il pensiero. Che cosa intende dirci con questo gioco di parole?
«Nel libro presento gli elementi di base per riconsiderare l’economia in senso più ampio, l’economia capitalista di mer- cato. Nel senso di George Bataille e di Sigmund Freud, quando parla di economia libidinale, delle pulsioni. Bisogna ri-differenziare il valore e la ricchezza, cosa che oggi gli economisti non fanno più, ma che ha una valenza etica. Dopo 250 anni di economia industriale, che ha provocato ciò che chiamiamo l’Antropocene, ci rendiamo conto dell’estrema pericolosità della condizione attuale, dei danni provocati al nostro pianeta. Bisogna ripensare l’economia. Ripensarla allo scopo di lottare contro l’entropia, contro ciò che minaccia il vivente, perché l’entropia è il disordine. Viviamo all’interno della sesta estinzione di massa, come dimostra la rapida diminuzione delle specie animali e vegetali. Credo sia fondamentale ripensare il valore, dal momento che l’economia attuale non fa che valorizzare l’entropia. Per questo, con un altro gioco di parole, parlo, più che di Antropocene, di Entropocene: età dell’entropia. E rileggo Adam Smith, per introdurre nuovi cri-teri di valore, al fine di rafforzare la neghentropia, il contrario dell’entropia». In cosa consiste questa cura?
«L’ipotesi è che bisogna pensare con una “a”, cioè panser, che in francese appunto significa curare. C’è bisogno di una cura, di un pharmakon. Il compito dell’economia politica, a partire dal suo esordio, è quello di definire i limiti. Oggi una scienza del divenire, la scienza dell’entropia, è la nuova critica, un’ipercritica concreta. Se non stabiliamo i limiti dell’economia politica, se non vi riusciamo nei prossimi dieci anni, è finita. Non solo per l’umanità: è finita la vita».
Ma il «pharmakon» è anche un veleno, ne parla Derrida. Com’è possibile che sia positivo?
«Ciò che manca in Derrida è una farmacologia positiva. Nell’opera di Georges Canguilhem Il normale e il patologico (1966), l’essere umano è considerato malato a causa della tecnica. Ma la malattia può essere rovesciata in nuova salute, come scrive Friedrich Nietzsche nella Gaia Scienza. Il pharmakon è sì un veleno, ma può essere trasformato in rimedio. In quanto medico, Canguilhem coglie l’idea di Nietzsche, ripresa da Michel Foucault e Gilles Deleuze, ma dimenticando l’essenziale, cioè che “il sapere è una cura”. Deleuze cita il poeta surrealista Joë Bousquet, paralizzato da una ferita alla schiena nella Prima guerra mondiale, che trasforma la sua infermità in capacità poetica. Trasforma la malattia in necessità».
Immagino vi sia qualche riferimento autobiografico in questa concezione.
«Nella mia vita per cinque anni sono stato in prigione e ho cercato di trasformarla in una chance. Mi sono riconosciuto in ciò che Deleuze dice di Bousquet: ero come lui, un “infermo”. Ritengo che Deleuze, a differenza di Derrida, abbia prodotto una farmacologia positiva in Differenza e ripetizione (1968), dove sostiene che bisogna trasformare la malattia in salute. Dunque una farmacologia positiva. Oggi l’eredità di Deleuze e Guattari è stata compromessa da un’interpretazione parziale riguardo a Nietzsche, visto come il filosofo che afferma la necessità del divenire. Non è così. Nel secondo volume di Umano, troppo umano afferma invece che il divenire è “spaventoso”. Descrive la macchina, la ferrovia, il telegrafo, la stampa: tutte cose da distruggere. Nella nuova filosofia di Zarathustra, allegoria della sua vita, è malato e depresso. Dopo la sua convalescenza, riporta la notizia dell’eterno ritorno: trasforma il divenire spaventoso nell’avvenire. È un errore enorme non distinguere i due termini, perché il divenire è l’entropia».
L’editore Fayard ha ripubblicato i tre volumi della sua opera «La technique et le temps», scritti tra il 1994 e il 2003. L’idea di fondo, che la tecnica sia da considerare positivamente, l’ha postatra i pensatori «integrati», favorevoli alle nuove tecnologie.
«La tesi fondamentale de La technique et le temps è che la filosofia sia stata basata, dalla sua nascita e fino ai giorni nostri, sulla repressione della tecnica, non tenendo conto della sua conformazione, del carattere originariamente esosomatico dell’essere umano (dotato di organi vitali, ma artificiali e non somatici), e quindi della condizione esosomatica dell’essere. Parte da Socrate e arriva fino a Deleuze, a Derrida e oltre (Alain Badiou ne fa solo una caricatura), e riguarda anche Martin Heidegger, che mette la tecnica al centro del suo pensiero. Karl Marx, d’altra parte, fa della tecnica il suo punto di partenza. Ma ho cercato di mostrare in La société automatique (2015) che non mantiene questa posizione fino in fondo, specialmente nell’allegoria dell’ape e dell’architetto. I tre volumi de La technique et le temps rispondono a queste domande, a partire da Heidegger, per passare attraverso Husserl e infine a Kant. Sostengo che, al contrario, il pensiero greco arcaico (presocratico e tragico), riconosce che la condizione tecnica è la sorte dei mortali, ma anche che la tecnica è un pharmakon (si trova traccia di questa esperienza del tragico in Socrate, ma Platone la cancellerà). Il che significa che la sua tossicità non può mai essere completamente eliminata e ritorna sempre, ma la conoscenza ha la funzione di limitarla».
Nel pensiero contemporaneo, sulla scia di Nietzsche, si è sviluppata una tendenza antimodernista contraria alla tecnica. Non è una posizione presente anche nel primo Heidegger?
«Heidegger sviluppa un’idea positiva della tecnica nel dopoguerra. Nel 1949 tiene una conferenza proprio sulla svolta ( Die Kehre), dove sostiene che la tecnica è la nuova realtà dell’essere. A Brema parla ancora della questione della tecnica, citando il famoso verso di Friedrich Hölderlin, “Dove c’è il pericolo, cresce ciò che salva”. È la questione del pharmakon. La tecnica va a sostituire la physis; è in grado di sostituire la storia dell’essere con la cibernetica. Aveva compreso l’Antropocene cinquant’anni prima. Ma era nazista e antisemita, come hanno dimostrato i Quaderni neri. Allora bisogna rileggere quei testi in altro modo».
Tutto questo trova le sue radici nel pensiero di Nietzsche?
«Il pensiero è prima di tutto una fun- zione vitale, e tutte le forme della conoscenza sono prescrizioni terapeutiche per aumentare la funzione curativa del pharmakon (dall’oggetto transizionale di Donald Winnicott alle piattaforme digitali) e ridurne la tossicità. Tale punto di vista è tracciato in Nietzsche, sviluppato da Alfred North Whitehead e soprattutto da Canguilhem. Tento di dimostrare che una rilettura di Nietzsche, a partire dai lavori del biologo e matematico Alfred Lotka, permette di aprire una prospettiva in grado di superare l’Antropocene, per impegnarsi nel Negantropocene. Si tratta quindi di riconsiderare il significato del nichilismo passivo e attivo, e quindi dell’Übermensch (il super-uomo): tutto il contrario del transumanesimo».
Transumano, postumano. Si parla molto del superamento dell’uomo grazie ai progressi rapidi della tecnologia. Pensa che il postumano sia la prossima frontiera della nostra società?
«Il postumano è una brutta faccenda. Credo che l’uomo non esista, che non sia mai esistito. Almeno due persone importanti lo affermano: il primo è uno scienziato francese, l’archeologo e antropologo André Leroi-Gourhan, secondo il quale l’uomo è sempre sul punto di prodursi, ma non è mai completo. L’altro è Jean Jaurès, leader socialista fondatore del giornale “L’Humanité” nel 1904. Nel primo editoriale scrisse: “L’umanità non esiste ancora o esiste appena”. Dunque qualcosa che è “a venire”. Dico allora che l’umanità è l’avvenire. Ma l’avvenire non esiste, non c’è nel presente, è sempre “a venire”. Se parliamo del postumano, vuol dire che prima c’è stato l’umano, l’uomo completo. Il che non è vero. È pericoloso dare credito alla teoria dei transumanisti. Dicono che l’uomo si supera, che aumenta. Ma l’uomo è sempre aumentato; l’aumento è ciò che definisce l’uomo, quello che Lotka chiama il processo di esosomatizzazione. Accade da tre milioni di anni. La visione transumanista è oligarchica: pensare di rendere l’uomo immortale è un delirio. È possibile un mondo con dieci miliardi di immortali? Forse vogliono rendere immortali solo una decina di persone della California, di fronte a dieci miliardi di schiavi. Un incubo peggiore del film Metropolis di Fritz Lang!».
Fonte: https://www.pressreader.com/italy/corriere-della-sera-la-lettura/20181111/281565176783561