Con l’espressione “nativi digitali” si indica la generazione di chi è nato e cresciuto nell’epoca della diffusione delle nuove tecnologie informatiche. Si tratta di persone, soprattutto di giovani, che hanno imparato l’uso delle nuove tecnologie in maniera del tutto naturale e spontanea.
L’espressione “nativi digitali” è la traduzione dell’espressione inglese digital native, in cui il primo elemento, digital, è inerente a tutto ciò che riguarda i mezzi informatici e native indica coloro che vi sono nati “in mezzo”, che sono indigeni di un mondo digitalizzato.
Di contro è stata coniata anche un’altra espressione, quella di “immigrati digitali” ovvero coloro che, quando queste nuove tecnologie si sono diffuse, erano già adulte e quindi “persone che hanno avuto maggiore difficoltà, o addirittura non riescono, a impadronirsi della conoscenza e dell’uso di questi nuovi mezzi”.
Queste due espressioni (nativi digitali e immigrati digitali) si sono diffuse anche nella lingua italiana dopo il 2001 perché nel 2001 è stato pubblicato in lingua inglese, da uno scrittore statunitense che si chiama Marc Prensky, un libro intitolato, per l’appunto, Digital Natives, Digital Immigrants.
In generale, per caratterizzare i “nativi digitali” possiamo tener presente le seguenti caratteristiche:
- l’apprendimento della tecnologia avviene in un periodo molto precoce, spesso anche prima dello scrivere o addirittura del parlare;
- l’uso dei media tecnologici avviene in maniera spontanea e segue l’individuo nel corso della propria vita;
- l’uso dei media digitali diviene fondamentale all’interno delle pratiche della vita quotidiana, dal gioco alle relazioni interpersonali.
Diverse statistiche mostrano che oggi un bambino di appena 5 anni, attraverso smartphone e tablet, ha maturato tra le 500 e le 600 ore di utilizzo delle tecnologie digitali in un’età in cui non ha ancora imparato a scrivere. All’età di 10 anni il numero di ore all’attivo sarà di 6000, per arrivare a 10.000 a 15 anni.
Le differenze tra i nativi e gli immigrati digitali spesso risiedono nel fatto che i primi non trovano alcuna difficoltà nell’uso di tali tecnologie, visto il lungo periodo di addestramento, mentre i secondi vuoi per età vuoi per meno addestramento, possono provare difficoltà e frustrazione di fronte a problemi che “nativi digitali” riescono a risolvere in maniera del tutto intuitiva.
Se si pensa alla cifra di 10.000 ore passate da un “nativo” utilizzando le nuove tecnologie, l’unico paragone che viene in mente è quello che un qualsiasi esperto di una materia, deve passare a studiarla per diventarne veramente competente. Così il numero di 10.000 ore, vale per esempio per un qualsiasi concertista che voglia padroneggiare finemente il suo strumento.
A differenza dello strumentista , però, i nativi non compiono alcun vero sforzo di apprendimento poiché si trovano al cospetto di un linguaggio che apprendo fin da piccolissimi. Quindi il minore dispendio di energie, rispetto ad un immigrato digitale, rende naturale applicare le tecnologia a tutte le fasi della vita quotidiane.
Molto spesso parlando con queste nuove generazioni, gli adulti si rendono conto che per i “nativi” risulta particolarmente difficile o impossibile pensare ad un mondo in cui la tecnologia non faceva parte attiva della vita quotidiana delle persone comuni. I racconti di come gli “immigrati” digitali trascorrevano la propria giornata senza internet, smartphone e social-network diventano vere e proprie mitologie.
Tutto questo tempo speso ad interagire con le nuove tecnologie ha portato però i ragazzi a diventarne totalmente dipendenti. Una recente ricerca sostiene che il 51% dei ragazzi tra i 15 e i 20 anni ha difficoltà a prendersi una pausa dalle nuove tecnologie, tanto da arrivare a controllare il proprio smartphone, in media, ogni 6 minuti.
Tutto questo ci porta a farci una domanda molto seria, la cui risposta potrebbe implicare risvolti veramente allarmanti per i nostri ragazzi:
quali sono gli effetti della tecnologia sulle nuove generazioni?