Fin dalle origini la diffusione del messaggio cristiano non è stata legata ad uno scritto o ad una serie di prescrizioni, ma ha avuto come principale punto di riferimento un uomo che attraverso gesti e parole aveva testimoniato sulla propria carne il fine escatologico verso cui l’uomo, nonostante tutto, era destinato da sempre, per l’infinito amore che Dio aveva per le sue creature. Così lo sviluppo dell’evangelo e la sua diffusione erano legati, fin dal principio, alla precomprensione della figura di Gesù. Man mano che gli apostoli predicavano al di fuori della Terra Santa, cambiavano le attese e le precomprensioni degli ascoltatori sia giudei sia pagani. Tali precomprensioni potevano essere pericolose e forvianti e oscillare tra una lettura politico-rivoluzionaria di stampo zelota ed un’interpretazione filosofica-mitizzante di matrice ellenistica.
Un abbozzo di tale preoccupazione si vede anche nei redattori dei Vangeli sinottici allorquando Gesù, dopo aver dato prova di numerosi miracoli chiede ai suoi: “Chi dice la gente che io sia?… ma chi dite voi che io sia?”. Il futuro del messaggio cristiano ruotava attorno alla comprensione della figura di Gesù. Nell’ambiente giudaico degli anni 30, attraversato da numerose correnti apocalittiche e pervaso da sentite attese messianiche, Gesù doveva apparire il Messia tanto atteso, almeno per coloro che, rimasti affascinati dalla sua persona, lo seguivano ovunque. La sua predicazione non veicolava un vero e proprio nuovo messaggio ma veniva a completare l’interpretazione della Tanak. Tale procedimento non creava problemi al giudaismo poiché la Torah non imponeva un ortodossia ma un’ortoprassi di cui Dt 9,1 è chiara testimonianza. I problemi, invece, si palesavano quando Gesù si intratteneva con gente considerata dal giudaismo impura, divenendo anch’egli impuro. Nella mente dei benpensanti, legati al tempio e alle pratiche di purità, il Messia non sarebbe potuto mai essere un impuro e così giustificavano i suoi atti di potenza come opera del Diavolo. Il popolo però che attraverso le numerose guarigioni rimaneva ogni giorno sempre più affascinata da tale personaggio, non poteva spiegarsi tale potenza se non individuando in lui il vero Messia ed ogni comunità ha caricato sulla persona di Cristo le speranze e le attese che erano più proprie alla foma mentis di ciascuno.
Da questo possiamo ricavarne uno spunto di riflessione che ci guiderà nell’argomentazione: “ma se la figura di Gesù, quando era ancora in vita, si prestava a differenti interpretazioni, figuriamoci cosa sarebbe potuto accadere dopo la morte e come sarebbe stata compresa quella morte di croce”.
Senza dubbio le prime comunità cosiddette “cristiane” non si sentivano estranee al giudaismo, almeno fino al 133 anno della distruzione definitiva di Gerusalemme, giacché gli stessi apostoli fino a quando non furono definitivamente allontanati, predicavano anche nelle sinagoghe. A queste persone, nate nel rispetto della Torah e nell’attesa messianica, Gesù doveva apparire sicuramente come una creatura divina inviata da Dio, così lo schema mentale più comune in cui potevano classificare l’operato gesuano era quello dell’angelo. Non era sicuramente un angelo comune, era il primo tra gli angeli, ma sempre un angelo.
Altri nel reinterpretare la figura di Gesù alla luce della sua figliolanza divina hanno dovuto certamente preservare l’unicità di Dio, non rischiando di vedere in lui un vero e propri figlio di Dio e quindi un altro Dio, ma lo hanno inteso come lo stesso Dio sceso in terra con un corpo apparente. Codesti vengono chiamati, con un termine moderno, modalisti.
Il giudaismo non era una religione che aveva come scopo principale quello di far proseliti, ma sicuramente vi dovevano essere dei pagani che gravitavano attorno alle dottrine giudaiche e ne rimanevano affascinati. Gli Atti degli apostoli ci testimoniano vari gradi di appartenenza al giudaismo da parte di convertiti che andava da semplici simpatizzanti a proseliti con tanto di circoncisione. Sicuramente questi ultimi dovevano essere molto pochi poiché oltre alla circoncisione, pratica non molto incoraggiante quando era fatta da adulti, i precetti che dovevano seguire erano inconciliabili con lo stile di vita pagano. Molti quindi erano quelli che dovevano essere solo simpatizzanti, ma tale status era sicuramente superficiale e non dava un vero e proprio senso di appartenenza e di gratificazione personale. Sicuramente è tra queste persone che il messaggio cristiano e specialmente quello di Paolo, doveva suscitare un certo interesse, non esisteva più un’appartenenza al giudaismo secondo gradi diversi, “non vi era più né giudeo né greco, né uomo né donna…” come diceva Paolo. Si era tutti uguali di fronte a Dio grazie a Gesù… e chi era quest’uomo divino?. L’ambiente pagano non aveva alcun problema ad attribuirgli una componente divina tanto una comprensione politeistica non creava scandalo alcuno, almeno a quelli più lontani dal concetto speculativo del Dio-Uno.
Questi paiono essere gli estremi della discussione che di lì a poco venne a creasi, ma tra i due termini massimi vi dovranno essere state tantissime gradazioni. Preferisco quindi parlare di differenti sfumature di cristianesimo e non di diversi cristianesimi come ormai molti studiosi moderni sostengono. Tutte queste comunità, con i loro usi liturgici, i loro scritti e le loro celebrazioni, fino a che restarono fenomeni isolati in una società di religione pagana, lo stesso isolamento permetteva uno sviluppo influenzato in massima parte solo dalle aree circostanti e non si poteva pretendere un confronto più in larga scala con comunità più lontane. Senza dubbio questa disparità riguardo alla stessa liturgia che regnava da comunità a comunità, doveva sott’intendere anche un diverso sviluppo speculativo riguardo allo stesso fenomeno religioso. Vi saranno state comunità più propense ad un indagine razionale, come quella alessandrina, che spinta dal fervore culturale medioplatonico, si dedicò ad un approfondimento filosofico della Verità. Altre tendenze, come quella testimoniata da Tertulliano, dovevano disdegnare queste tendenze razionalistiche, reputate pericolose e forvianti e fare appello alla sola auctoritas delle Scritture. Queste diverse posizioni contribuirono anche a determinare l’importanza delle regole di fede e il campo investigativo entro cui ci si doveva muovere e non si potè fare a meno di scontrarsi con realtà religiose che apparentemente sembravano di matrice comune, come gli gnostici, ma ad un’analisi più approfondita presentava presupposti non comuni alla regula fidei delle grandi chiese.
I problemi iniziarono a sorgere sicuramente verso la fine del secondo secolo, quando il cristianesimo cominciò a diffondersi in maniera piuttosto significativa nei punti nevralgici dell’impero. Tertulliano nelle sue opere, specialmente quelle di genere apologetico, testimonia quanto numerosi e quali cariche avevano raggiunto i cristiani all’interno del tessuto sociale africano. Il formarsi di un canone scritturistico, ritenuto di ispirazione divina, determinava anche la necessità di individuare un credo comune che giustificasse il senso comune di appartenenza di tutti i cristiani.
Quando la figura di Gesù entrò nel dibattito filosofico, specialmente dell’ambiente alessandrino, come già abbiamo accennato, fu spiegata alla luce della dottrina platonica, come fece per primo Clemente, tanto da creare un platonismo cristiano. Ma lo schema teologico del rapporto tra Dio Padre e il Cristo preesistente correva il rischio di far individuare in Cristo un Dio minore, mediatore tra Dio Padre ed il mondo. Per questo motivo si venne a creare un vigoroso dibattito con quella pars di cristiani che, cresciuti in un ambiente cristiano giudaizzante, tenevano a manifestare chiaramente e senza ombra di dubbio la monarchia divina, avversando qualsiasi dottrina che potesse metterla in crisi. Tale preoccupazioni non erano solo effimere elucubrazioni, ma si mostrarono subito ben fondate, se si mettono in relazione con la rilettura gnostica della figura di Gesù. Lo gnosticismo finì per creare un sistema di miti, attraverso un procedimento di allegorizzazione sfrenato dei testi sacri, che andarono completamente oltre a qualsiasi regola di fede tramandata dalle chiese apostoliche, tanto da dover affidare la propria legittimità ad una rivelazione segreta e per pochi, fatta da Gesù stesso prima di ascendere al Padre.
La disputa coinvolgeva anche correnti di pensiero che facevano appello ad una comune regola di fede tramandata dalle grandi chiese. Origene, nelle disputa con i monarchiani, mostra chiaramente il punto a cui era arrivata la ricerca speculativa alessandrina a riguardo della trinità. Il Logos era intermediario del Padre con il mondo in maniera sussistente e cioè: le persone divine sono distinte tra di loro non solo per ipostasi ma anche per essenza (usia) e sostrato (upokeimenon). Ipostasi era la realtà individuale di qualsiasi essere e come tale questo termine era compreso dalla maggior parte dei filosofi; essenza e sostrato invece si prestavano ad almeno due diverse interpretazioni. Aristotele aveva diviso l’usia prima da un’usia seconda, individuando nella prima l’essenza individuale cioè la sostanza comune ad ogni essere e nella secondsa quella comune a tutti gli esseri di una specie. Così anche per il sostrato ve ne era uno individuale e cioè quello caratterizzato dalle qualità di ciascun individuo e uno generale o indifferenziato comune agli esseri di uno stesso genere. Origene per spiegare le differenze del Figlio rispetto al Padre, usa sia i termini essenza che sostrato in senso individuale sinonimicamente con ipostasi. Risulta quindi un Figlio distinto dal Padre individualmente e inferiore per dignità ma non privo di differenza dal punto di vista della divinità poiché entrambi hanno in comune un sostrato o essenza generale. Il concetto di generazione di cui l’alessandrino parlava, non era di tipo “animale” cioè il Figlio non è stato generato dall’usia del Padre, diminuendo e mutando l’usia paterna (cosa inconceppibile), ma la generazione è avvenuta in modo analogo sicut e mente voluntas in maniera eterna e continua e non nella maniera in cui la presentava la teoria del doppio stadio, sostenuta dai cosiddetti apologisti.
Queste due diverse impostazioni, monarchiana da una parte ed alessandrina dall’altra, facevano si che gli uni ritenessero in errore chi sostenesse tre ipostasi della divinità, e che gli altri al contrario, ritenessero in errore chi negava le tre ipostasi. Il sabellianesimo della prima ora (ovvero la dottrina monarchiana patripassiana/modalista), ma anche quello successivo, all’orquando parlava del Figlio, non potevano fare a meno di ritenerlo una dynamis del Padre, non sussistente di per sé. Tale presa di posizione eliminava il rischio del tanto temuto diteismo, imputato alla Logostheologie ma finiva per assumere posizioni troppo estremiste che negavano la reale differenza tra padre e figlio se non onomastica, due nomi diversi per identificare lo stesso soggetto. Anche il monarchiano papa Callisto, che aveva cercato di conciliare le due dottrine interpretando il Logos nella stessa maniera con cui lo stoicismo designava lo Pneuma, ovvero intendendo che lo spirito, sostanza di Dio incarnata, come tale era Padre; mentre colui che era stato generato come uomo Gesù: era il Figlio. Nella disputa tra Sabellio e il cosiddetto “Ippolito” (pseudo Ippolito), sebbene Callisto non tollerasse le posizioni riguardo la Logostheologie di quest’ultimo, non poté far a meno di scomunicare anche Sabellio.