I grandi passi fatti dalla ricerca scientifica negli ultimi cento anni hanno portato l’uomo ad avere la sensazione che ormai sono rimasti ben pochi i misteri nascosti alla scienza, ma non tutti sanno che il grande fisico Albert Einstein, ormai vegliardo, affermava stupito che:
L’eterno mistero del mondo è la sua comprensibilità
Nonostante il progresso e l’affinarsi degli strumenti e dei metodi d’indagine, ancora oggi l’universo rimane un affascinante mistero. Dall’analisi delle più antiche fonti in nostro possesso, possiamo scorgere quanto sia stato sempre grande l’anelito di conoscenza che l’uomo, fin dagli albori della civiltà, ha mostrato verso il mondo sensibile che lo circondava. Chissà quante volte i pastori innalzando lo sguardo verso il cielo notturno per rimirare gli innumerevoli e immutabili puntini di luce avevano percepito una stella muoversi: ecco! Avevano scorto il passaggio di un Dio errante.
Le grandi domande che da sempre l’uomo si è posto, nella caducità e nello sgomento terrifico del vissuto quotidiano, di fronte ad una natura ora madre, ora tiranna, sono state sempre protese a determinare un senso alla propria esistenza, al proprio nascere, crescere, invecchiare e morire. Chi ha creato le stelle? Come le ha create? Avrà mai fine tutto questo? E come?
Per millenni e millenni, l’uomo cercò di dare una risposta a tutto questo. L’hic et nunc dovevano essere quindi riletti attraverso i risultati di una costante indagine sull’origine del cosmo e di tutto ciò che in esso vi si determinava. Questo desiderio portò gli uomini, o alcuni tra essi, ad indagare i fenomeni naturali ed a interpretare il mistero che giaceva dietro il manifestarsi delle forze della natura. Certamente i mezzi a loro disposizione erano limitati, la pura osservazione del dato empirico rimase per lungo tempo l’unica risorsa a cui attingere; solamente più tardi si approdò alla logica razionale. Nacquero così da principio i miti cosmogonici e teogonici, attraverso i quali l’uomo cercò di raccontare e sistematizzare le innumerevoli forme con cui si manifestava la realtà.
Nel corso della storia culture differenti hanno dato origine a miti della creazione che spiegano l’origine del mondo e dell’uomo come il risultato di forze cosmiche. Questi racconti hanno aiutato gli uomini a sentirsi meno frustrati e smarriti di fronte all’insignificanza della loro esistenza.
Naturalmente il nostro accesso alle opinioni comunemente diffuse nell’antichità non è diretto, qualunque sia l’epoca considerata. Ad eccezione di pochissime fonti archeologiche ed epigrafiche, troviamo riscontri solamente nei testi letterari. Tali fonti però risentono delle naturali limitazioni dovute al soggettivismo di chi le ha scritte ed ai gusti della tradizione che le ha preservate e tramandate a scapito di altre. Pertanto arrivare a comprendere le convinzioni della gente comune è un compito assai arduo, giacché i testi a nostra disposizione sono un prodotto letterario di notevole complessità.
La stessa parola greca mythos risente di una polisemia che si sviluppa ed evolve diacronicamente all’interno della produzione letteraria ellenica, infatti troviamo che in Omero accanto a moltissime sfumature di significati, tale lessema sta ad indicare principalmente la «parola» detta ed ascoltata, intesa come mezzo peculiare di comunicazione tra gli uomini, ed usata come mezzo di dissimulazione e di ammaliamento o di narrazione autorevole. Così, quando nell’Iliade Atena intima agli achei di fare silenzio, era perché dovevano «ascoltare la sua (di Ulisse) parola (mûthon) e meditare il suo consiglio»[1]. Possiamo quindi scorgere nella parola proferita dal guerriero Odisseo, esperto nell’arma della dissimulazione, un efficace mezzo di persuasione; mentre quando la parola è proferita dal vecchio Nestore, essa diventa veicolo di un dire autorevole[2].
All’interno del lessico omerico però tale vocabolo oscilla tra un dire astuto in cui la parola è usata per dare un comando, riferire un progetto segreto, per una macchinazione[3] o una congiura[4], e una solenne implorazione al volere degli dei come nel caso del pastore Filezio[5].
Anche il racconto è mythos poiché la parola assembla immagini mentali, le rielabora e le ripete arricchendole di particolari, fino a dar luogo ad una tradizione[6]. Attorno al mythos omerico si condensano parole, discorsi, racconti, che trapassano gli uni negli altri fino a dar luogo ad una narrazione unica, figlia di diverse tradizioni orali. Come J. P. Vernant fa notare, «nel contesto greco il mythos non si presenta dunque come una forma particolare di pensiero, ma come l’insieme di ciò che veicola e diffonde, nella causalità dei contatti, degli incontri, delle conversazioni, la potenza senza volto, anonima e inafferrabile che Platone chiama phèmè, il Rumore»[7].
Anche il mito quindi è una forma di conoscenza della natura delle cose; la maggioranza dei greci dell’epoca classica ritiene che Omero e tutti gli altri poeti siano le fonti di un sapere condiviso riguardo tutto ciò che concerneva il proprio passato e in generale i propri valori[8]. Questa massa di “saperi” tradizionali fu espressa, da principio, nel linguaggio comune, il linguaggio familiare quotidiano con il quale si trattavano anche le faccende ordinarie, e si è conservata attraverso una tradizione puramente orale nata attorno al focolare: racconti di nutrici e vecchie nonne che fin dalla più tenera età intrattenevano e sbalordivano i fanciulli con queste storie favolose.
Proprio questo passare di bocca in bocca, di generazione in generazione, attraverso un continuo riadattamento alle esigenze che di volta in volta si manifestavano, ha reso il mito sempre attuale e vitale, degno di essere raccontato. Secondo il Vernant «questi racconti, questi mythoi, tanto più familiari giacché si sono sentiti narrare nello stesso tempo in cui s’imparava a parlare, contribuiscono a modellare il quadro mentale in cui i greci sono, in modo del tutto naturale, portati a rappresentarsi il divino, a collocarlo, a pensarlo»[9]. Polibio riferisce che ancora ai suoi tempi in Arcadia, i bambini, erano abituati fin da piccoli a cantare gli inni e i peana con i quali si celebravano gli eroi e gli dei locali, secondo i costumi paterni[10]. Ciò contribuì a forgiare una particolare percezione del mondo che assumeva le fattezze di un «grande organismo sociale» abitato da varie divinità. Gli dei erano considerati come esseri dotati di una sorta d’intelligenza superiore, ma che, nel loro modo di governare il mondo, stabilendone le regole, andavano soggetti più a passione e desideri che ad un pensiero razionale. Fu proprio a causa di queste deroghe all’apparente razionalità e ordine della natura che l’uomo sentì il bisogno di comprendere il mondo e le forze che lo governavano. Se non riuscì proprio a comprenderne le cause degli eventi, almeno, attraverso il mito, ebbe la sensazione di imbrigliarne il mistero. Il mito, così, come sostiene F. Graf, «vuole esprimere qualcosa di valido sulla nascita del mondo, della società e delle sue istituzioni, sugli dei ed il loro rapporto con gli uomini, in breve su tutto ciò che determina l’esistenza umana»[11].
Grazie poi alla voce dei poeti, il mito è uscito dall’ambito del privato, del familiare ed assieme all’accompagnamento musicale, è diventato un espediente d’intrattenimento e di diletto anche nelle feste ufficiali, nei giochi, durante i banchetti. La poesia di per sé ha assolto bene ad una funzione di conservazione, fissazione e trasmissione di questo tipo di sapere proprio grazie al determinarsi di una forma verbale facile da ricordare. Non a caso Esiodo, nella Teogonia, dice che le muse sono figlie di Zeus e Mnemosine, la dea del ricordo. La poesia quindi derivando dalla somma divinità, gode di una particolare dignità ed importanza poiché svolge la funzione di imprimere l’oggetto della rappresentazione nella memoria degli uomini[12].
In sintesi possiamo dire che coloro che in epoca arcaica usavano la parola «muthos» non lo facevano attribuendo lo stesso senso che attualmente noi gli attribuiamo, poiché non opponevano tale parola a «logos». Anche logos esisteva nel loro vocabolario, ma con un senso generale affine a quello di mythos; soltanto alla fine del V secolo col nascere della trattazione filosofica e della ricerca storica, la parola mythos acquisirà una sfumatura peggiorativa e designerà una conoscenza senza alcun fondamento, senza una dimostrazione rigorosa ed affidabile, garantita al contrario dal logos[13].
[1] Hom., Il., II, 282.
[2] Hom., Il., II, 433.
[3] Hom., Od., II, 412.
[4] Hom., Od., IV, 676.
[5] Hom., Od., XXII, 287-289.
[6] Cfr. Hom., Il., XI, 655-803.
[7] J. P. Vernant, Le origini del pensiero Greco, Milano, 2007, p. 18.
[8] Cfr. L. Brisson, «Mito e sapere», in Storia Einaudi dei greci e dei romani, a cura di J. Brunschwig e G. E. R. Lloyd, Vol. 11, Torino, 2005, p.49.
[9] J. P. Vernant, Mito e religione in Grcia antica, Roma, 2009, p. 4.
[10] Polibio, Hist., 4, 20, 8.
[11] F. Graf, Il mito in grecia, Roma-Bari, 20073, p. 3.
[12] Cfr. B. Snell. La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino, 1963-2002, p. 71.
[13] Cfr. J. P. Vernant, Le origini del pensiero greco, op. cit, pp. 17-18.